La
seconda sala è dedicata quasi per intero al ritratto pittorico della
seconda metà dell’Ottocento. Sono esposti dipinti di artisti dauni quasi
tutti acquistati dalla Provincia negli ultimi anni, eccezion fatta per il
ritratto di Francesco De Sanctis dipinto da Nicola Boffa. Come è noto,
accanto ai ritratti di personaggi illustri anche di altre epoche, la borghesia
nell’Ottocento commissiona soprattutto ritratti da inserire nella propria
abitazione, per una fruizione privata e personale. Il proprio ritratto ad olio e
quello dei propri familiari costituisce quasi una sorta di status simbol
appartenente in precedenza alle classi aristocratiche. Diversamente che nel
passato, il personaggio non viene più inserito nel contesto sociale che lo
esprime, ma viene ritratto sempre con le medesime tipologie, in pose statiche e
frontali, per lo più a mezzo busto, con sguardo deciso. Ciò che più si chiede ai
ritrattisti è soprattutto la somiglianza fisica, oltre che una sorta
d’idealizzazione del personaggio, quando questi aveva rilievo sociale, politico
o economico. In Italia, tuttavia, nonostante una larga committenza, il ritratto
pittorico, come ha scritto Enrico Castelnuovo, ebbe un modesto destino. L’Italia
nell’Ottocento partecipa molto marginalmente all’epopea del ritratto “grande
borghese” degli altri Paesi europei perché “una crisi linguistica senza
precedenti interrompe e conclude il corso dell’arte italiana”. Perdendo
contatto con la cultura figurativa più moderna, gli artisti italiani non
riescono più ad esprimere neanche col ritratto, oltre che con gli altri
generi, le ragioni del proprio tempo. Altrove incombe il realismo, il
romanticismo, l’impressionismo. Solo col nuovo secolo l’arte italiana tornerà ad
esprimersi alla grande, anche con il ritratto. I ritratti presenti in questa
sala sono nati in questo contesto, ma alcuni di essi non sono la stanca
ripetizione di un motivo. Almeno due, dei quattro dipinti di Domenico Caldara (Foggia,1814
– Napoli, 1897) esposti, esprimono da un lato (Ritratto di gentildonna già
nella collezione Celuzza) la tradizione di grande spessore di una capitale come
Napoli, dall’altro anche il timido approccio alle nuove tende artistiche
iniziate a Napoli da Morelli, Altamura, Toma, Celentano(Vecchietta,
sempre della collezione Celuzza). Domenico Caldara fu un ritrattista di grandi
doti, caro alla Corte degli ultimi Borboni di Napoli, al punto che la Regina
Madre, Maria Teresa,gli chiese di ritrarre il volto di Re Ferdinando II subito
dopo la morte di quest’ultimo. Altro artista foggiano presente in questa sala
con un Ritratto di giovane donna è Antonio La Piccirella (Foggia, 1841 –
1900),efficace ritrattista noto soprattutto per gli affreschi eseguiti nella
Chiesa di S. Domenico a Foggia. Di Ascoli Satriano è invece Nicola Boffa (Ascoli
Satriano, 1859 – Napoli (?),1925), formatosi a Napoli, che firma nel 1887 il
ritratto di Francesco De Sanctis, il patriota- letterato di Morra Irpina che
fu più volte deputato nel Collegio di San Severo, mentre di San Severo è Angelo
Russi (1828 –1888), anch’egli formatosi a Napoli, che realizza un efficace
Ritratto di Michele Minischetti. Di Serracapriola è invece A. De Luca (Sec.XIX),
che firma un severo Ritratto di signora per nulla idealizzante.
Nella sala vi è anche un dipinto di Ferruccio Gervasio (San Severo,1869-1966), Indigenti, espressione di quel verismo sociale teorizzato anche
dell’altro grande pittore(e patriota) foggiano dell’Ottocento, Francesco Saverio
Altamura (Foggia,1822 – Napoli,1897)che, a differenza di Caldara fu in contatto,
anche a causa delle sue condizioni di esule, dopo il 1848, con tutte le più
aggiornate esperienze artistiche europee, parigine soprattutto, che poi trasferì
in Italia, a Firenze, contribuendo alla diffusione di quella pittura di
“macchia” che fu forse il solo contributo italiano al rinnovamento dell’arte
nell’Ottocento. Altamura, formatosi all’Accademia di Belle Arti di Napoli, a
Parigi era venuto in contatto anche con l’opera di Corot e soprattutto di
Courbet e del suo Pavillon du realisme, che rafforzò nell’artista
foggiano “la convinzione della missione civile dell’arte” (Bruno Molaioli) che
poi espresse sia nei quadri di soggetto storico che in quelli di maggiore
aderenza alle istanze sociali e realiste (v. Infortunio sul lavoro,
presso il Museo civico di Foggia). Ma come veniva vissuto in provincia il
realismo courbettiano teorizzato in Italia soprattutto da Pelliza da Volpedo?Uno
dei pochi validi esempi di dipinti di denuncia sociale che si conosca di autori
locali è questo Mendicanti di Ferruccio Gervasio del 1896 realizzato nella piena
temperie sociale e culturale di fine secolo. E’ uno dei più interessanti dipinti
dell’artista (San Severo, 1869 – 1966),per altro soprattutto pittore di
paesaggi, che in età avanzata fece anche parte della giuria di accettazione
della Prima mostra provinciale organizzata dal Sindacato Fascista Belle
Arti di Foggia(1937).
Questo dipinto conferma le notevoli doti di
ritrattista di Domenico Caldara. Fu proprio questa sua capacità di cogliere con
facilità la fisionomia e la psicologia dei soggetti raffigurati che spinse il
conte Varo, dopo che il giovane artista aveva già riempito di ritratti di nobili
e borghesi la città di Foggia, a mandarlo a perfezionarsi a Napoli. Non
conosciamo il nome della giovane donna ritratta, ma sicuramente l’opera è tra
quelle realizzate nello stesso periodo in cui l’artista ritraeva i vari
componenti della famiglia Jannuzzi, di Andria. Il ritratto della signora
Jannuzzi, era indicato infatti tra quelli più riusciti dell’artista. E il
polemico Domenico Morelli riteneva addirittura che fosse stato realizzato da
Mariano Fortuny. Questo ritratto in un ovale è sicuramente uno dei più
importanti e meglio riusciti di Caldara. Prova ne sia (la moneta buona…viene
imitata) che esiste una replica, probabilmente dello stesso Caldara, del
dipinto. Ma non raggiunge la stessa qualità formale e la stessa felicità di
esecuzione di quest’opera. La struttura del dipinto e in parte la scelta dei
colori ricordano il celebre Autoritratto di Caldara che si trova alla
Galleria degli Uffizi di Firenze, in particolare per lo sfondo, su tonalità dal
verde scuro al verde chiaro, dove l’assenza di indicazioni di tipo ambientale
consente di far emergere in tutta la sua austera plasticità il mezzo busto della
giovane donna ritratta. L’impostazione del ritratto, costruito sulla diagonale
ascendente, è dunque classica. Il volto è ritratto di tre quarti. La giovane
donna è in posa. Non guarda l’artista. I suoi occhi profondi e melanconici
sembrano fissare pensierosi il vuoto. Anche il sorriso è frenato e pudico. I
capelli neri e folti raccolti sulla nuca e la giacca scura con un orlo di
merletto che risalta sulla camicia bianca col collo plissettato, fanno risaltare
ancora di più il volto, illuminato da una fonte luminosa quasi centrale che
ammorbisce e sfuma i lineamenti rivelando un incarnato delicato. E’ un ritratto
vero e ideale al tempo stesso. Il valore simbolico di alcuni dettagli in piena
evidenza, come il grande crocifisso appeso al collo e la coccarda sul petto con
una viola del pensiero dipinta, rendono ancor più misteriosa questa giovane
donna. Il dipinto, in cornice dorata d’epoca, è stato acquistato dalla Provincia
di Foggia dal prof. Angelo Celuzza nel 1997.
Questo ritratto di vecchietta è di un realismo impietoso. Avvolta in uno scialle
bleu scuro ravvivato da alcune strisce di rosso e pochi tagli cromatici che
danno consistenza alle pieghe, la vecchierella è colta con il capo incurvato e
gli occhi che si alzano a cercare quelli dell’osservatore. I capelli neri, con
qualche lumeggiatura di bianco, sono tirati indietro e lasciano intravedere
un’incipiente alopecia. All’orecchio destro, un gioiello d’oro. Il volto non ha
molte rughe ma è come se fosse incartapecorito. La fonte luminosa viene da
sinistra. Gli occhi sono di un naturalismo impressionante che contribuisce a
penetrare la psicologia del personaggio. La pupilla è viva ma stemperata da un
liquor lacrimoso. Denuncia sofferenza non disgiunta da un velo di ironia. Si
tratta probabilmente del dipinto esposto a Venezia dal Caldara nel 1887
all’Esposizione Artistica Nazionale. Quest’opera dimostra come l’artista
foggiano avrebbe potuto benissimo abbracciare le nuove tendenze artistiche, meno
accademiche, se solo lo avesse voluto. (G.Cris.)
Il dipinto raffigura a mezzo busto Francesco De Sanctis (Morra Irpina, 1817 –
Napoli, 1883), critico e storico della letteratura, giornalista, patriota
(partecipò ai moti napoletani del 1848 per i quali fu dapprima esiliato in
Calabria e poi tenuto in carcere a Napoli per trentadue mesi) e infine, dopo il
1860, deputato e più volte ministro. Francesco De Sanctis – cui Foggia dedicò la
Piazza principale proprio di fronte alla Cattedrale – fu eletto più volte
deputato nel Collegio di San Severo (dal 1866 al 1875), dove strinse amicizia
con Vincenzo Gervasio, padre del pittore Ferruccio Gervasio (l’epistolario tra
F.D.S e V.G. è stato pubblicato in Scritti vari inediti o rari, a cura di
Benedetto Croce, Napoli, Marano e figli, 1878, vol.II pp.235 s. e ora si può
leggere anche in B.Mundi e G.Mundi Leccese, Omaggio a San Severo, Foggia,
Edizioni del Rosone, p.301-310).De Sanctis, con giacca di un bleu scuro che
appena si distingue dal fondo, anch’esso scuro, camicia bianca e papillon, è
visto quasi frontalmente, con baffoni e mosca e i capelli ingrigiti. E’ un buon
dipinto. La vivacità del colorito del volto e lo sguardo severo rivolto
all’osservatore non riescono a dissimulare una certa sofferenza, più che durezza
e fermezza di carattere. L’artista ascolano (su cui v. E.Giannelli, Artisti
napoletani viventi, Napoli,1916) ha realizzato il dipinto nel 1887, pochi
anni dopo la morte del De Sanctis, cogliendone i tratti fisionomici ma cercando
anche di interpretarne, a posteriori, il carattere e la psicologia. La scelta
dell’ovale è dovuta al fatto che il dagherrotipo da cui l’immagine è tratta è
appunto in ovale. Qualche anno dopo anche Saverio Altamura realizzava, dalla
stessa fotografia, un ritratto di F.De Sanctis (S.Altamura, Francesco De
Sanctis, olio su tela,cm.77x62, firmato e datato 1890). Tale dipinto, donato
dalla vedova di De Sanctis al Museo di Capodimonte, si trova ora, sempre a
Napoli, al Museo di S.Martino, sala XXIII, secondo quanto riferisce Mario Simone
(S.A. Pittore-patriota foggiano nell’autobiografia nella critica e nei
documenti, a cura di Mario Simone,Foggia, SED, 1965, p.137). Il dipinto di
Altamura presenta maggiore freschezza coloristica, e una vivacità di sapore
impressionistico, ma, anche se più accademica, l’opera del Boffa non sfigura al
confronto. (G.Cris.)
Accanto alla pittura di storia, celebrativa dell’epopea risorgimentale, la
seconda metà dell’Ottocento ha visto anche in Italia, con qualche ritardo
rispetto all’opera di Gustave Courbet, l’affermarsi di un’arte per l’Umanità,
secondo l’espressione di Giuseppe Pellizza da Volpedo, che doveva dar voce agli
esclusi e agli umili, un’arte, cioè, che incarnasse maggiormente le idee
progressiste che andavano allora emergendo. In questo filone – che non disgiunge
la denuncia sociale dall’analisi pittorica - si colloca il dipinto Mendicanti
di Ferruccio Gervasio, realizzato dall’artista sanseverese nel 1896. Sono gli
anni in cui il Longoni realizza le Riflessioni di un affamato (1894,
Biella, Museo Civico) e il Morbelli denuncia la durezza del lavoro nelle risaie
(Per ottanta centesimi!, 1895, Vercelli, Museo Borgogna) anticipando il
ciclo populista di Giacomo Balla dei primi del Novecento. E’ la dimensione
sociale della crisi di fine secolo. I quattro “indigenti”, due uomini, una
vecchia e una bambina, camminano in fila indiana, sono ritratti in primo piano,
a metà figura. Questo accentua la possibilità del pittore di lavorare
sull’espressione dei volti, pervasi da una grande tristezza e da senso di
rassegnazione. Procedono in fila, sono intabarrati; escono forse da un ospizio
di mendicità, dove hanno trovato momentaneo ristoro. Sono infatti a ridosso di
una costruzione in pietra, con lesene modanate, parete in pietra, stipite
lavorato a foglie d’acanto: ci si trova forse davanti all’ingresso laterale di
una chiesa. Sul piccolo ingresso, un’altra figura curva e scura scende le scale,
rasente il muro quasi a nascondersi. In fondo alle scale, una vetrata illuminata
dà senso prospettico alla scena, che altrimenti vedrebbe gli indigenti
appiattiti sulla parete. Una luce fredda illumina le figure. La vecchia al
centro guarda l’osservatore, con occhi di denuncia. Il volto è di un realismo
estremo: rugoso e rinsecchito. La testa, prima che dallo scialle, è coperta da
un copricapo lanoso. La mano destra nodosa tiene stretto lo scialle al mento per
non prendere freddo. Il primo uomo sulla destra è visto di profilo, si regge col
bastone, ha tabarro, cappello, scialle e barba incolta. Lo sguardo è perso nel
nulla. L’altro uomo a destra, che chiude la fila, è visto quasi frontalmente, è
più giovane, e lo sguardo triste è rivolto in giù, in direzione della bimba,
vista di profilo, che chiude il quadro. Le tiene una mano sulla spalla. La bimba
è bella, bruna, i capelli coperti da un fazzolettone che scende fin giù sulle
spalle. Guarda avanti con la bocca amareggiata. Il padre guarda a lei con
tristezza e speranza. La scelta dell’artista di mostrarci gli indigenti a metà
figura, in primo piano, è dovuta alla necessità di non stemperare il dramma
sociale con la distanza. Le figure occupano tutta la scena. Sembra un fotogramma
di cinema neorealista. Non c’è nessuna indulgenza e deriva populista, ma una
vera e propria denuncia sociale, accentuata dalla scelta cromatica di colori
freddi e lividi. La scelta del tema non deve essere stata casuale per F.G.,
figlio di quel Vincenzo Gervasio che per anni curò per Francesco De Sanctis i
rapporti nel Collegio di San Severo, dove il patriota di Morra Irpina fu eletto
per ben cinque volte dal 1866 al 1875. Il dipinto è lo stesso che F.G. espose a
Foggia nel 1937 col titolo Humilis gens, alla Prima mostra provinciale
del Sindacato fascista di belle arti di Foggia (v. Catalogo… A.Petrucci e
altri, 1937, p.21,24, citato da A.Gambacorta in Arte a Foggia dal 1900 al
1950, Foggia, Museo Civico, 1980, p.117, 118). Tanto si deduce da un
cartiglio incollato sul retro della tavola.(G.Cris.)
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